FOTO 1: I confini orientali italiani dal 1937 (linea tratteggiata) a oggi (linea blu); in rosso la Linea Morgan
Nel maggio del 1945 le truppe del generale Tito occuparono l’Istria e per più di un mese scatenarono il terrore nell’intera regione procedendo ad arresti, deportazioni, condanne e uccisioni contro chiunque fosse ritenuto un oppositore del nuovo regime.
Il 9 giugno 1945 l’intera regione venne divisa in due zone, A e B, separate da un confine chiamato Linea Morgan, in attesa delle decisioni delle trattative di pace.
La zona A era amministrata dal Governo Militare Alleato (GMA) costituito da forze angloamericane, mentre la zona B era amministrata militarmente dalle forze armate jugoslave.
La città di Pola, che al tempo era la maggiore città istriana a maggioranza italiana, venne inclusa nella zona A, divenendo una sorta di enclave circondata dal territorio della zona B.
FOTO 2: Foto di classe della 1^ Media maschile a Pola del 1946. Nella seconda fila il quinto ragazzino da sinistra è il cantante Sergio Endrigo – Archivio privato famiglia Bronzin
Gli italiani sostenevano che l’Istria dovesse rimanere all’Italia perché la popolazione era in prevalenza italiana. I croati, invece, sostenevano che l’Istria dovesse andare alla Jugoslavia perché la maggior parte dei paesi e delle campagne erano croati.
Erano vere entrambe le cose: gli italiani prevalevano per numero ma erano condensati nelle città del litorale, i croati prevalevano per estensione occupata ma erano distribuiti nell’entroterra. Le città erano floride e commercialmente attive, mentre le campagne erano povere e culturalmente arretrate.
Per questo gli italiani dicevano che l’Istria era costituita da “oasi italiane in un deserto croato”, i croati invece dicevano che l’Istria era costituita da “isole italiane in un mare croato”.
La tensione era palpabile e si erano già verificati attentati contro gli italiani:
Dal maggio 1945 sulla spiaggia di Vergarolla giacevano abbandonati e incustoditi una trentina di ordigni reclamati dalla Jugoslavia come preda bellica, ma sotto la responsabilità del Governo militare alleato (GMA) in attesa che la Commissione sui bottini di guerra ne decidesse la destinazione finale.
Non erano recintati e nessun cartello ne segnalava la pericolosità. Così molti ci passavano tranquillamente vicino e i bambini erano soliti giocarci sopra.
Dopo le esplosioni di Molo Carbone e Vallelunga ripetuti controlli degli Alleati fatti anche a inizio primavera avevano confermato che gli ordigni erano inerti, privi di innesco, e quindi sicuri.
FOTO 3: Mine come quelle che si trovavano sulla spiaggia di Vergarolla
Per protestare contro l’inerzia del Governo italiano dai primi di luglio del 1946 gli italiani a Pola iniziarono una raccolta firme in cui minacciavano un esodo di massa: su 31.700 abitanti, 28.050 firmarono per l’esilio.
FOTO 4: Prima pagina de L’Arena di Pola del 4 luglio 1946, col titolo “O l’Italia o l’esilio”
Il 15 agosto 1946 a Pola venne indetta manifestazione ginnico-musicale nella bellissima Arena, l’anfiteatro romano costruito tra il 2 a.C. ed il 14 d.C. sotto Augusto e simbolo della città.
L’evento, promosso dalla Lega Nazionale, era una esplicita manifestazione patriottica a favore dell’Italia. 20.000 italiani entrarono nell’Arena gridando “Italia, Italia”, mentre i titini avevano minacciato che “avrebbero fatto tali stragi nell’Arena che si sarebbero visti ballare i morti”.
Il 18 agosto 1946 sulla spiaggia di Vergarolla la società canottieri Pietas Julia organizzò gare di nuoto di tre tipi: la Coppa Scarioni sui 200 metri, la Leva dei tuffatori e il Meeting natatorio per il campionato istriano 1946.
La Coppa Scarioni, ideata nel 1913 dal giornalista Franco Scarioni e poi a lui intitolata, era una gara nazionale giovanile di nuoto, che si svolgeva con una serie di eliminatorie regionali ed infine con una finale nazionale.
FOTO 5: Il pontile di Vergarolla
Il programma prevedeva al mattino le eliminatorie di stile libero, dorso, rana e le staffette con disputa della finale prevista per le ore 11.45. Nel pomeriggio erano in programma le gare di tuffi, un torneo di pallavolo e una gara di tiro alla fune in acqua.
La sera era prevista una Gran Veglia danzante per i 60 anni della Pietas Julia.
FOTO 6: Una foto di gruppo scattata a Vergarolla la mattina del 18 agosto 1946
La manifestazione organizzata a Vergarolla aveva l’intento dichiarato di mantenere una parvenza di connessione col resto dell’Italia. L’Arena di Pola reclamizzò l’evento come una manifestazione di italianità.
Per agevolare i partecipanti era stato attivato un servizio navetta che faceva la spola con una motobarca dal porto di Pola al molo di Vergarolla.
FOTO 7: La sede della società Pietas Julia
Alle ore 14.15 del 18 agosto 1946 esplosero ventotto mine di profondità ammassate sulla spiaggia di Vergarolla per un totale di 9 tonnellate di tritolo.
Si alzò in cielo una colonna di fuoco, presto trasformatosi in fumo nero. Una polvere densa pervase l’atmosfera, mentre la pineta alle spalle della spiaggia prese fuoco.
FOTO 8: La colonna di fumo nero che si levò in aria dopo l’esplosione
Poco prima del boato si avvertì una scossa di terremoto che in città ruppe i vetri di tante finestre e scardinò infissi e porte, facendo tremare edifici e mobili.
Lo scoppio dilaniò, decapitò o ridusse a brandelli numerose persone scagliandone i resti a decine o centinaia di metri di distanza, in acqua, a terra o sugli alberi. I gabbiani se ne cibarono.
I soccorsi furono complessi e caotici, anche per il fatto che molte persone furono mutilate e di altre si trovarono solo brandelli di carne, impossibili da identificare.
FOTO 9: Un soccorritore, poi identificato in Mario Angelini, solleva il corpo mutilato di una bambina
I feriti e i cadaveri furono portati all’ospedale cittadino, dove nell’opera di assistenza si distinse in particolar modo il dottor Geppino Micheletti.
FOTO 10: il dottor Micheletti presta i primi soccorsi in strada dopo lo scoppio a Vergarolla
Alla fine le vittime identificate furono 64, mentre i resti di altri corpi appartenevano a una quarantina di persone non identificabili.
Il numero definitivo dei morti oscilla tra 110 e 116. Un terzo erano bambini.
La difficoltà a stabilire con esattezza il numero delle vittime è dovuta al fatto che molti italiani profughi della Zona B erano ospitati negli appartamenti, nelle cantine o nelle soffitte dei polesani di Zona A, ma non erano registrati all’anagrafe.
I feriti registrati furono più di 200, tra i quali anche 4 militari britannici in libera uscita.
FOTO 11: Prima pagina del settimanale di Pola La posta del lunedì del19 agosto 1946
FOTO 12: Geppino Micheletti
Geppino Michelstaedter (cognome poi italianizzato in Micheletti) era nato a Trieste il 18 luglio 1905.
Si trasferì a Pola con la famiglia nel 1930, dopo aver ottenuto la laurea in medicina a Perugia e la specializzazione in chirurgia a Padova.
La mattina del 18 agosto 1946 i figli del dottor Micheletti, Carlo e Renzo, di 9 e 6 anni, si trovavano proprio a Vergarolla, insieme alla sorella, al cognato e alla nipotina.
FOTO 13: Jolanda Nardin, moglie del dott. Micheletti, con i
figli Renzo e Carlo nel 1941
Il figlio Carlo giunse poco dopo l’esplosione all’ospedale, senza vita. I corpi del figlio Renzo, della sorella, del cognato e della nipotina, che si trovavano a ridosso degli ordigni furono disintegrati, del figlio Renzo fu rinvenuta soltanto una scarpetta.
Nonostante la straziante notizia Geppino Micheletti rimase al suo posto e continuò a operare senza sosta per oltre 48 ore.
FOTO 14: Renzo e Carlo Micheletti nel 1943
Geppino Micheletti rimase a Pola fino al 31 marzo 1947.
La Croce Rossa lo aveva dichiarato indispensabile e fu lui a coordinare l’evacuazione di tutti i malati ricoverati nell’ospedale dopo la firma del Trattato di pace.
Poi partì anche lui, dicendo: «Non voglio un domani ritrovarmi a curare gli assassini dei miei figli».
Il 2 ottobre del 1947 lo Stato italiano gli conferì una medaglia d’argento.
Ottenuto un posto di primario nel piccolo ospedale di Narni, lavorò in Umbria per quattordici anni, sempre con grande dedizione. I suoi collaboratori raccontavano che spesso raggiungeva l’ospedale anche di notte, quando da casa sua vedeva alcune luci accese e intuiva che poteva esserci bisogno del suo intervento.
Si racconta che quando operava portava sempre nella tasca del suo camice il calzino del figlio Renzo.
FOTO 15: Renzo e Carlo Micheletti
Geppino Micheletti continuò ad esercitare con efficacia anche dopo aver subito l’amputazione di alcune dita di entrambe le mani a causa di una radiodermite. Morì a Narni l’8 dicembre del 1961, all’età di 56 anni, per un attacco cardiaco.
I funerali di tutte le vittime si tennero a Pola martedì 20 agosto 1946 a spese del Comune.
Tutti i sindacati, filoitaliani e non, proclamarono l’astensione dal lavoro per permettere a tutti di partecipare alle esequie, così che fabbriche, uffici e negozi rimasero chiusi per lutto. Ogni famiglia polese aveva perso almeno un congiunto, un amico, un conoscente o un collega.
Davanti alla cappella mortuaria furono disposte le decine di bare, allineate in due file. 64 bare contenevano cadaveri identificai, 21 contenevano salme non identificate. 4 casse racchiudevano brandelli di corpi dilaniati e squarciati dall’esplosione.
FOTO 16: La prima pagina de L’Arena di Pola del 20 agosto 1946
Alle ore 9 il Vescovo di Parenzo e Pola, Mons. Raffaele Radossi, diede inizio alla funzione religiosa. Nella sua omelia accorata criticò apertamente le autorità Alleate per non aver evitato la strage. Poi citò il dottor Micheletti come esempio di abnegazione.
Finita la celebrazione il corteo funebre si avviò verso il cimitero. Sfilarono 54 corone di fiori. I fiori disponibili in città non riuscirono a soddisfare tutte le richieste.
FOTO 17: Geppino Micheletti all’uscita dalla chiesa mentre porta la bara del figlio Carlo
FOTO 18: Geppino Micheletti mentre regge la bara del figlio Carlo
FOTO 19: Geppino Micheletti e sua moglie Jolanda Nardin mentre seguono il feretro del figlio Carlo
Dopo la strage il comando inglese avviò subito un’indagine e una settimana dopo istituì una Corte Militare d’inchiesta per verificare se si era trattato di dolo o incidente.
La relazione finale della Corte concluse che gli ordigni potevano esplodere solo se innescati intenzionalmente ma non riuscì a determinare le responsabilità della strage.
FOTO 20: Una pagina della relazione finale della commissione d’inchiesta inglese
Qualcuno aveva visto un uomo “vestito bene, di grigio” muoversi nella pineta e stendere un cavo. In molti avevano sentito degli scoppi come spari prima dell’esplosione.
Tra gli italiani si diffusero diverse ipotesi di responsabilità, secondo le quali gli attentatori potevano essere stati:
FOTO 21: Prima pagina del giornale clandestino Grido dell’Istria del 13 settembre 1946 con le ipotesi sull’attentato
Solo nel 2008, alla luce delle indagini di Fabio Amodeo e Mario J. Cereghio negli archivi del Public Record Office di Londra è emerso il testo di un’informativa riguardante la strage di Vergarolla, nella quale il Comando Alleato dichiarava esplicitamente che l’esplosione era stata un attentato pianificato dall’OZNA, il servizio segreto jugoslavo.
Il 10 febbraio 1947 furono firmati a Parigi i Trattati di pace, così come erano stati definiti durante i lavori della Conferenza di pace che si era tenuta sempre a Parigi da luglio a ottobre del 1946.
FOTO 22: Il segretario generale della delegazione italiana Antonio Meli Lupi di Soragna firma i Trattati di pace alla Conferenza di Parigi il 10 febbraio 1947
Alla luce di questi Trattati l’Italia doveva:
La città di Trieste coi comuni circostanti e la parte dell’Istria non ceduta avrebbero dovuto formare il Territorio Libero di Trieste, poi mai concretamente costituito, ma amministrato da un comando militare anglo-americano fino al 1954.
La delusione per le dure condizioni imposte all’Italia fu grande per tutti gli italiani.
FOTO 23: Prima pagina del Corriere d’Informazione dell’11 febbraio 1947
La firma dei Trattati di pace fu la spinta definitiva che convinse la maggior parte degli italiani residenti in Istria a partire.
Nell’inverno del 1947 la città di Pola si trasformò in una città fantasma, poiché dai 40.000 abitanti che aveva nel 1940 arrivò ad averne solo 4.000.
FOTO 24: Esuli di fronte alla nave Toscana in partenza dal porto di Pola nel 1947
FOTO 25: Esuli istriani in stazione
FOTO 26: Esuli istriani
Le autorità jugoslave distribuirono agli italiani 3 etti di chiodi per famiglia per chiudere le casse.
L’emigrazione forzata causò un afflusso incessante di persone al porto di Trieste, dove l’Ufficio Esodo assegnò agli esuli il Magazzino 18, un edificio in cui lasciare le proprie masserizie in attesa della loro destinazione definitiva.
FOTO 27: Il Magazzino 18 nel porto di Trieste
La mancanza di un’attribuzione certa di responsabilità ha determinato una sospensione della memoria per la strage di Vergarolla, di cui per quasi cinquant’anni praticamente non si è parlato.
Evento troppo grave per essere del tutto dimenticato ma dalle connotazioni politiche troppo delicate per essere ripreso dall’una o dall’altra fazione, per paura di rinnovare tensioni ormai superate, la strage è passata sotto silenzio per decenni.
Solo le associazioni di esuli istriani ne hanno tenuto vivo il ricordo e infine nel 1997 sono riuscite a ottenere l’erezione di un monumento a Pola, un semplice blocco di pietra d’Istria collocato a fianco della Cattedrale della Assunzione di Maria Vergine.
FOTO 28: Cippo eretto a Pola nel 1997 in memoria della strage; in basso la foto del dottor Geppino Micheletti
Nel 2011 è stata eretta una lapide commemorativa anche a Trieste, sul colle di San Giusto.
FOTO 29: Cippo eretto a Trieste per commemorare le vittime della strage di Vergarolla